Libero intervista Francesco Rocca: “Neutralità e imparzialità, linfa vitale di Croce Rossa”
Di Cristiana Lodi «Il campo di battaglia è coperto di cadaveri e di carogne. Le strade, i fossati, i dirupi, le macchie, i prati sono disseminati di corpi senza vita… Gli sventurati feriti sono pallidi, lividi, annientati. Alcuni, e in special modo quelli gravemente mutilati, hanno lo sguardo ebete e sembrano non comprendere quello che gli si dice… Altri, con le piaghe aperte e l’infezione, sono come pazzi di dolore e chiedono d’essere finiti… », comincia così la storia della Croce rossa. Con quel Souvenir de Solferino scritto durante la guerra dal rampollo della borghesia ginevrina, Henry Dunant: un diario tremendamente reale, che di lì a poco avrebbe cambiato la sua vita (Nobel per la Pace, 1901) e quella di gran parte dell’umanità. Inseguiva Napoleone III per dirgli degli affari di famiglia in Algeria. Arriva così fin sopra le colline a sud del Garda, nei giorni terribili della battaglia di Solferino e San Martino. L’esercito franco-piemontese contro quello austriaco. Quarantamila soldati feriti e lasciati morire nelle campagne del Mantovano. Sventolava la propria imparzialità di fronte alle due parti, Dunant. E così convinse gli abitanti dei villaggi vicini a portare il soccorso che era loro possibile ai tanti feriti. Eccolo, dunque, il primo corpo civile volontario di soccorso, dal quale nascerà la Croce rossa italiana (giugno 1864) e poco dopo (8 agosto dello stesso anno) quella internazionale con la Convenzione di Ginevra che raduna 16 stati. N’è passato di tempo. Tanto quanto pesante è l’eredita di Francesco Rocca: avvocato penalista romano di 51 anni, eletto due volte (2013 e 2016) presidente della Croce rossa italiana. Oltre che vicepresidente di quella internazionale. Nel 2008 è stato Commissario straordinario della Cri; l’anno precedente capo del Dipartimento socio-assistenziale. Per un decennio, fra gli Ottanta e i Novanta, l’avvocato Rocca dirige (oltre alla Caritas) le più importanti associazioni di volontariato italiane. Là, dove si affrontano emergenze, scoppia una calamità o si tratta di minori, rifugiati e immigrazione, c’è lui che coordina e indirizza e gestisce e interviene sul posto. Sono lontani i giorni in cui le donne di Castiglione delle Stiviere (vicino Solferino) s’improvvisavano infermiere in quell’inferno di melma e budella e tanfo di morte. Soccorrevano strillando: «Siamo tutti fratelli!». Fino a farne il motto che i volontari della Croce rossa italiana chiamano lo «Spirito di Solferino». Cos’è rimasto, oggi, di quello Spirito? «Tutto. Un copione destinato a non tramontare. Vede, la grande intuizione che poi è diventata la linfa di Croce rossa, non è la pietas per il soldato ferito. È piuttosto la capacità di essere imparziali: è la totale neutralizzazione davanti al conflitto che consente al soccorritore di accedere in ogni luogo senza farsi sparare. Anzi, potendo dire: “Tu non mi tocchi”. Lo “Spinto di Solferino” e della Convenzione di Ginevra è, e sarà sempre questo: l’imparzialità davanti alla guerra. L’essere neutrali di fronte agli schieramenti o all’atto più barbaro: è ciò che rende possibile l’aiuto umanitario. È la chiave del volontario per entrare ovunque». Un esempio? «Georgia, 2008. Siamo stati i primi ad arrivare a Gori: la città simbolo del conflitto scoppiato a inizio agosto contro la secessionista Ossezia del Sud. I russi, intervenuti a favore dei secessionisti stessi, non facevano passare nessuno. Soltanto noi siamo riusciti a entrare: la Croce rossa della Georgia ci aveva chiesto aiuto. Siamo andati. Partenza da Roma e Verona, il 22 agosto: 19 mezzi, 60 volontari. Eravamo neutrali, come sempre. Migliaia i morti, i feriti, gli sfollati, case distrutte, rifomimento idrico ed energia elettrica tagliati in quasi tutte le città georgiane. Una devastazione: la risposta di Mosca era stata pesantissima. In 16 mila hanno dovuto abbandonare la capitale Tblisi. A Gori abbiamo impiantato il “campo Italia” fornendo soccorso e aiuti umanitari: una media di 5mila pasti al giorno. Il ministro degli Esteri canadese si è complimentato con i nostri volontari per “l’efficienza e la generosità”. Idem i funzionari dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e la moglie del Primo ministro georgiano in visita al nostro campo». È sempre così? Basta essere neutrali?«Affatto. Ci sono luoghi incontrollabili e ostili anche verso di noi. Yemen: qui ci sono continue vittime fra i civili, i raid aerei della coalizione a guida saudita, solo pochi giorni fa, hanno centrato un mercato a Hodeida. Decine di feriti e 70 morti. Siria: è appena stato attaccato un convoglio umanitario dell’Onu diretto ad Aleppo. Una ventina i morti, compreso un membro della Mezzaluna rossa siriana».Al motto «Siamo tutti fratelli!», oggi, affiancate «Nessun essere umano è illegale!». Sarebbe? Uno slogan più attuale e aderente all’emergenza immigrati? «Primo: i flussi migratori non devono essere affrontati come un’emergenza, ma come un fenomeno. Un fenomeno destinato ad andare avanti se resteranno in piedi le cause scatenanti. E che rischia di diventare inarrestabile se queste cause non saranno sanate alla radice. Secondo: lo gridiamo a gran voce che “Nessun essere umano è illegale”. Sa perché?». Glielo domando. «Il contrario sarebbe chiedere a un siriano di rimanere con la propria famiglia sotto le bombe ad Aleppo o a Raqqa. Oppure a un somalo di rischiare la vita o fare la fame nel Corno d’Africa. Qualcuno può dare loro torto se scappano?». No, a loro no. Ma a chi governa, cosa dice? «Che il fenomeno va risolto in loco. La carestia del Corno d’Africa, la crisi somala, piuttosto che quella eritrea generano un flusso migratorio che va ormai avanti da venti anni. Questa non è emergenza, è un fenomeno costato ormai un patrimonio enorme all’Italia e all’Unione europea, che poi così unita non è. Allora dico: serve un intervento sistemico, urge la cooperazione internazionale. La povertà va combattuta sul posto. Penso alle carestie: i climatologi ogni volta sono in grado di prevederle e monitorarle. Perché allora non frenare prima, le conseguenze invece di far morire la gente o costringerla a fuggire? Bisogna investire in questi paesi, anziché fomentare la corruzione». Servono i muri? «No. Obama lo ha detto chiaro: i muri servono soltanto a imprigionare se stessi. Il tema vero, piuttosto, è informare. Il migrante (cosiddetto) economico che parte, non sa a cosa va incontro. Non ha nessun tipo d’informazione riguardo fl lavoro, i suoi diritti e doveri nei paesi in cui approda. Inoltre non conosce lo scenario criminale gestito dai trafficanti e i rischi legati al viaggio che, troppo spesso, è verso la morte. E le pratiche di riconoscimento di chi arriva? Nessuno se ne occupa, uno scandalo. Serve implementare il Global compact, investire sui paesi d’origine e assicurare ai migranti l’accesso a un’informazione chiara e che può frenare chi intende partire. Un esempio: Mezzaluna rossa tunisina nel governatorato di Medenine, al confine con la Libia, ha fatto opera d’informazione pressante ai migranti clandestini sui pericoli e l’improbabilità di arrivare a destinazione. Il 50 per cento ha desistito e non è partito». Soccorrete i migranti clandestini a metà tragitto, salendo sulle navi del Moas. «Noi andiamo incontro a dei disperati in mezzo al mare. Li vediamo affogare. Un tempo c’erano barche di legno sì pericolose. Ora arrivano con mezzi improbabili costruiti in Libia a getto continuo, di fabbricazione cinese. Trappole destinate ad affondare. In tre mesi, prima sulla nave Phoenix e poi sulla Responder, Croce rossa insieme col Migran offshore aid station (Moas) ha salvato 4522 persone in 44 operazioni nel Mediterraneo». Quanti ne avete assistiti durante lo sbarco sulle nostre coste? «Duecentoventimila, da gennaio 2015 a settembre 2016». È rientrato ora dall’Assemblea dell’Onu di New York sulla crisi migratoria globale. C’erano 48 stati. E deluso dal vertice. Perché? «Un dato: 65 milioni fra migranti e rifugiati nel 2015. Mai un numero così alto dal Secondo dopoguerra. Qualche impegno sui rifugiati è stato sì preso durante l’incontro con Obama. Ma riguardo all’immigrazione no. Zero. Di soluzioni non ne sono state trovate. Ci si è dati appuntamento al 2018. E questo la dice lunga sulla mancanza d’impegni da parte di quei governi che hanno un peso specifico nella soluzione del problema». Qualcuno ha rimarcato che Obama non ha nemmeno citato l’Italia per gli sforzi compiuti e che compie. «Il nostro Paese invece ha ricevuto l’apprezzamento di tutti per l’impegno a salvare tante vite. Il resto è una questione di cifre. Noi sopportiamo un grande peso con i nostri centomila rifugiati. Tutti d’accordo. Ma altri Paesi ne subiscono uno ben più elevato. Pensi al Libano (grande come il Lazio) con oltre due milioni di rifugiati fra siriani e palestinesi. Idem la Turchia o la Giordania. Ovvio che Obama abbia citato loro». Catastrofi. Drammi. E voi a correre là. Cosa l’ha colpita di più? «L’Aquila a livello nazionale. Non solo per la devastazione e il numero dei morti di quel terremoto (vicini a quelli dell’ultimo di Amatrice), ma per i tanti sfollati. Cinquatamila da assistere. Disperati senza più niente. Non dimentico i sessanta giorni passati in tenda a l’Aquila a portare aiuto insieme con i miei volontari. A cominciare da quelli locali che, come sempre, hanno un ruolo fondamentale. Lo scriva: loro sono preziosi perché ti dicono come muoverti, dove e come arrivare in tempo a salvare la vita». A livello internazionale? «Haiti. Pazzesco. Tre milioni coinvolti dal sisma. Più di 200 mila morti. Ancora oggi, a sei di distanza, il Paese fatica a uscire dall’emergenza sociale e sanitaria».