Da Catania a Roma, la storia di Michele e della sua Eritrea

di Daniele Aloisi

 

Michele durante lo sbarco e a Tiburtina
In alto Michele durante lo sbarco. In basso, in braccio a una volontaria al campo di accoglienza a Tiburtina.

Eritrea è il suo nome e quello del Paese dal quale fugge. Un nome datole in onore dello stesso Paese che la costringerà a scappare. Eritrea è una delle tante mamme che hanno deciso di affrontare il mare insieme ai propri figli, scelta che deriva dalla profonda consapevolezza che affidarsi alla sorte e al mare è più sicuro che rimanere nella propria casa. Le storie delle persone migranti sono tutte diverse e al tempo stesso tutte simili se si considerano le reali motivazioni del viaggio. Che la causa sia una guerra o una sanguinaria dittatura militare, in comune c’è sempre la voglia di rifarsi una vita e assicurare protezione per se stessi e per i propri figli. Agli occhi del suo Paese, la colpa di Eritrea era quella di aver sposato un uomo che si era rifiutato di prestare il servizio militare obbligatorio, e per questo era stato arrestato. C’è da sapere che in Eritrea il servizio militare inizia a diciott’anni e non ha una fine certa, può durare da tre a quaranta anni, chi si sottrae compie un reato. Nella scelta se fuggire o no, è stato però determinante il fatto che, in questo piccolo Paese africano, la detenzione è prevista sia per l’imputato che per tutta la sua famiglia, in maniera del tutto discrezionale. Abbandonare il Paese è stata di conseguenza una scelta obbligata per evitare ritorsioni sui suoi figli.Il viaggio visto con gli occhi di una madre è sicuramente terrificante, ma lo è ancor di più con gli occhi di un bambino, come in questo caso di Michele o di suo fratello, i due figli di Eritrea. Il tragitto percorso ha visto i tre passare per il Sudan, l’Egitto e la Libia, luogo dal quale si sono imbarcati per l’Italia. È nel porto di Catania che il 3 giugno questa famiglia incontra per la prima volta la Croce Rossa Italiana. Appena sceso dalla nave Michele si rifugia nelle braccia di una volontaria della Croce Rossa e qui viene immortalato in uno scatto che, poco tempo più in là, assumerà un significato molto importante.Eritrea continua a viaggiare e i primi di Luglio arriva insieme a Michele e al fratellino al campo di accoglienza di Tiburtina, montato e gestito dalla Croce Rossa di Roma. Riprendersi da un viaggio come quello dei tre può non essere facile e il soggiorno a Roma si prolunga. Col tempo si scopre che il motivo di tanta attesa è anche un altro. La famiglia attende infatti che la figlia maggiore, poco più che adolescente, arrivi in Italia. Non si sa molto di lei, solo che per motivi tutti da chiarire, durante il viaggio era stata bloccata in Sudan. 

 

Michele che lo spruzzino. Foto Daniele Aloisi
Michele che gioca sulle spalle di un volontario con uno spruzzino d’acqua.

Durante l’attesa della sorella Michele diventa a tutti gli effetti la mascotte del campo Tiburtina, tutti lo conoscono. La gioia e felicità del bambino nel giocare per il campo ripagano giornalmente la grande fatica dei volontari. È in Agosto che Michele si guadagna il soprannome di Bombardiere, nomignolo datogli per la sua abitudine di girovagare per il campo sulle spalle di un volontario e di “bombardare”, con uno spruzzino pieno d’acqua, i volontari e gli ospiti del campo. Arrivata anche la sorella al campo, è tempo di rimettersi in viaggio, questa volta in direzione Svezia, dove Eritrea ha un fratello che li aspetta. L’ultimo giorno al campo lo ricordano tutti. L’emozione, le lacrime e la festa per salutare Michele e i suoi cari. Una volta consegnati i kit viaggio con le cose utili per affrontare la traversata fino alla Svezia, i quattro partono una mattina all’alba. Per qualche tempo i rapporti si interrompono, fino al messaggio più bello: “Tutti ok, arrivati sani e salvi, ora siamo a Malmo!”. Ancora oggi sono molti gli scambi di messaggi su whatsapp tra i volontari ed Eritrea. La loro è una storia che più di altre racconta uno dei caratteri distintivi della Croce Rossa: l’universalità. La capillarità della Croce Rossa su tutto il territorio ha fatto sì che il viaggio attraverso lo stivale fosse sempre accompagnato dalla certezza di trovare nei volontari CRI protezione e sicurezza e un aiuto per andare avanti, superare il passato e ritrovare serenità. È la forza di abbracci come quelli tra Michele e i volontari che ogni giorno ispira migliaia di persone a indossare un’uniforme della Croce Rossa o della Mezzaluna Rossa. Ognuno di loro sa che la propria opera ha un valore inestimabile perché non rappresenta l’opera di un singolo ma di un intero Movimento di 17 milioni di volontari che, in ogni luogo del mondo, opera sotto la guida degli stessi ideali umanitari per alleviare le sofferenze dell’uomo e tutelare la vita e la salute.

 

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