Rocca: “Grande orgoglio per il lavoro coraggioso del Comitato di Codogno in un momento così straordinario”.
È ormai trascorso un anno da quando la pandemia di Covid-19, dopo la Cina, ha colpito duramente il nostro Paese per poi dilagare in Europa e nel resto del mondo. Momenti drammatici scolpiti indelebilmente nella memoria di chi ha vissuto quei terribili mesi in prima linea come Il Comitato della Croce Rossa di Codogno, città diventata simbolo della prima ondata del coronavirus.
“Esattamente a un anno di distanza dalla situazione che portò un piccolo comune lombardo ad essere sotto i riflettori d’Italia – ha commentato il Presidente della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca – non posso che esprimere il grande orgoglio a nome di tutta la Croce Rossa Italiana per il lavoro coraggioso del Comitato di Codogno in un momento così straordinario. Avete incarnato i nostri Sette Principi e dimostrato al mondo intero cosa significa essere un Volontario della Croce Rossa”.
I volontari CRI, intervistati dall’Adnkronos, hanno ripercorso quei giorni difficili un anno dopo.
Laura Grazioli ha 26 anni, è nel volontariato da quando ne aveva 14 e guida l’ambulanza da quando ne aveva 23. È una studentessa di Medicina, i suoi professori hanno curato quello che l’Italia conosce erroneamente con il nome di paziente 1, ha la freddezza di chi sa tenere a bada le emozioni ma le assorbe tutte.
“Il soccorritore – spiega nel corso dell’intervista – ha il privilegio di entrare in casa delle persone. Loro ti aspettano sapendo che puoi dare una mano. Con il Covid mi ha colpito lo sguardo dei parenti, ci leggevo la paura. Quando tutto è iniziato, ci guardavano non più solo come chi va in aiuto, ma anche come chi sta portando via qualcosa di prezioso, col rischio di sottrarlo per sempre”. In zona rossa era cambiato anche il ritmo degli interventi. “Prima in un turno di notte il telefono suonava al massimo tre volte per un incidente stradale o un malore, nelle prime settimane invece non c’era il tempo di lasciare un paziente in ospedale che già un altro aspetta il trasporto”. Chiuso l’ospedale di Codogno, i tragitti erano sempre più lunghi verso Cremona, Pavia o Milano. Viaggi che il paziente affrontava solo e che per alcuni potevano non avere ritorno. “Non poter salire in ambulanza, non poter seguire il proprio caro in ospedale, sapere di non poterlo andare a trovare è la cosa che più ha inciso umanamente. Il nostro è un lavoro di urgenza, siamo abituati ad agire ‘in fretta’, ma in quei momenti abbiamo sempre concesso tempo, consapevoli della necessità di dare la giusta durata per il distacco”, spiega la volontaria.
Di tempo per commuoversi Laura non ne ha avuto, nemmeno quando è risultata positiva la madre, infermiera a Codogno, o quando ad aprile ha assistito a un parto in casa: un segno di rinascita per il piccolo comune lombardo. “La freddezza sugli eventi è importante, bisogna concentrarsi sulle cose da fare. È anche fondamentale essere attenti, empatici, umani e ricordarsi che i pazienti sono sempre i cari di qualcun altro. Dal punto di vista sanitario siamo preparati, ma dal punto di vista umano non lo si è mai fino in fondo. C’è chi con il virus ha preferito non prestare più servizio, a me questa idea non è mai passata per l’anticamera del cervello”.
Difficile dimenticare il primo turno con il Covid che ha cambiato ogni aspetto del lavoro di un soccorritore: dalla vestizione – la tuta da indossare sopra la divisa, e poi i calzari, la visiera, la mascherina e i doppi guanti – alla necessità di sanificare l’ambulanza. “Quel giorno, nei vari interventi di soccorso, si è reso necessario per due volte la Cpap, una maschera per la ventilazione: nella mia esperienza l’avevo vista utilizzare forse due volte. Dalla centrale operativa ci chiedevano di controllare il saturimetro perché i parametri erano particolarmente preoccupanti, ma la strumentazione funzionava, non era lì il problema. Lì abbiamo capito che non sarebbe stato facile” combattere un virus che ha tolto tanto, ma non l’umanità. “Ho trovato tantissima comprensione. Ora che la situazione non è più così drammatica come nei primi mesi e siamo tornati quasi alla normalità, cerco di fare ancora più attenzione a quello che la gente prova, se già osservavo prima adesso cerco di farlo di più. C’è anche una complicità maggiore tra colleghi”, dice la volontaria della Croce Rossa che ha appena ricevuto la seconda dose di vaccino. “Non ho mai avuto dubbi, è un gesto di responsabilità anche verso gli altri e credo che ognuno debba fare la propria parte. Anche a Codogno c’è qualche negazionista e mi dispiace perché ha visto da vicino il Covid, se ha risparmiato i suoi cari ha scorto il dolore e la perdita nelle case degli altri. Mi fa rabbia sentire certe cose, è una mancanza di rispetto per le tante famiglie che non hanno avuto la fortuna di uscirne indenni”, conclude Laura Grazioli.
Luigi Grazioli, 35 anni, anche lui volontario della CRI di Codogno e impiegato in un’azienda che distribuisce gas, la linea di confine ha la data del 20 febbraio 2020. Uno spartiacque collettivo. “Fino a quel giorno la mia vita è stata normale”, racconta all’Adnkronos, “poi, il pomeriggio del giorno dopo, alla mia porta hanno bussato degli infermieri: dovevo fare il tampone e così il Covid è diventato inaspettatamente una possibilità. Il 15 febbraio ho tenuto un corso dell’associazione, in collaborazione con il Comune, sull’utilizzo del defibrillatore per gli appartenenti alle strutture sportive e c’era Mattia, il ragazzo che l’Italia conosce erroneamente come il paziente 1. Lui gioca a calcio ed era lì”. Mentre il Paese si interrogava su cosa fare, “è iniziata la mia quarantena. Mi tenevo con contatto con gli altri due istruttori del corso, ci scambiavamo impressioni e timori. Il contatto con Mattia, ignaro di essere portatore del virus, c’era stato e non potevo fare nulla per tornare indietro: eravamo stati insieme per cinque ore in una stanza. Non ho avuto paura, ma ho avvertito un senso di inadeguatezza, la consapevolezza di non essere preparato. Alla fine siamo risultati tutti negativi”, racconta il volontario impegnato nel soccorso e nella formazione.
Una volta uscito dalla sua stanza le strade di Codogno hanno restituito amplificata la sensazione di straniamento. “Era cambiato praticamente tutto nel mio lavoro in ambulanza. Ricordo la mia prima uscita tutto bardato, il numero di interventi senza sosta nei primi mesi, gli ospedali da raggiungere sempre più lontani, i parenti che non potevano salire in ambulanza e le cui ansie andavano gestite. Chi ci chiamava aveva paura di andare in ospedale, di fronte avevamo casi sempre più gravi”, spiega Luigi che ha rincontrato Mattia in un triangolare di calcio tra la nazionale dei sindaci, una selezione di politici della ‘ex zona rossa’ e una selezione di volontari.
A Codogno le vittime hanno volti familiari. Due i volontari della CRI deceduti per Covid, tante le famiglie distrutte da un virus contro cui bisognerà combattere ancora a lungo. “Non è ancora finito niente. L’ultimo periodo non ha nulla a che vedere con i primi tre o quattro mesi che hanno lasciato più il segno e pensavo ‘non ce la faremo’. Non si sa quando finirà tutto questo, credo che il virus continuerà a incidere sulla normalità, sul modo in cui continueremo a proteggerci: penso alle tute da indossare in ambulanza o alle mascherine diventate una seconda pelle. Dubito che torneremo a tenere corsi in aule affollate, non ritengo che ci libereremo a breve delle mascherine, io credo che questa emergenza abbia segnato un prima e un dopo. E no, non ne usciremo migliori”, dice il 35enne appena vaccinato. “Anche se avessi avuto una telecamera addosso durante i miei interventi c’è chi avrebbe gridato a una messinscena. Io non sono nessuno per dire alla gente cosa deve fare, ma so qual è la realtà e quali sono gli atteggiamenti giusti da tenere. Io con i negazionisti non discuto, io so cosa ho visto, ricordo ogni ‘grazie’ ricevuto con lettere e telefonate dai pazienti e dai parenti. Sono contento di aver seguito il corso della Croce Rossa 11 anni fa, dal primo giorno ho imparato qualcosa di utile per me e per altri e continuerò a mettere a disposizione il mio tempo per aiutare chi ha bisogno”, conclude Luigi Grazioli.