Ruanda. Sorella Contu: “Non abbiamo imparato ad imparare”

 

Sono trascorsi 25 anni dagli orrori del genocidio in Ruanda. Cento giorni di follia, tra il 7 aprile e il 4 luglio 1994, durante i quali 800 mila ruandesi furono massacrati a colpi di machete, bastoni chiodati, asce, coltelli e armi da fuoco. Nello sterminio scatenato dall’odio interetnico tra Hutu e Tutsi, che la comunità internazionale non è stata in grado di fermare in tempo, la Croce Rossa era lì.  Due volontari locali sono stati uccisi ed altre cinque persone sono rimaste ferite nel bombardamento della sede del Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) nel centro di Kigali. Sorella Francesca Contu, dell’Ispettorato di Cagliari l’Agosto del 1994 era lì e ha condiviso con noi il ricordo di quei giorni.

La notte del nostro arrivo pioveva. Il cielo era grigio. Passando la frontiera ho avuto la sensazione di aver attraversato come una porta del tempo. Il confine era delimitato da una sbarra di legno e subito dall’altra parte, in un gabbiotto di fortuna, dei ragazzi giovanissimi, tutti rigorosamente armati. Il luogo dove stavamo andando era molto lontano e per raggiungerlo percorremmo una interminabile strada sterrata. Intorno a noi solo buio e per tutto il tragitto non un’anima viva. L’indomani l’oscurità era svanita. C’era una chiesa molto grande, un ospedaletto e un grande piazzale. Sembrava fosse passato un tornado. In terra i giornali di Topolino, fatti arrivare dall’Italia, e ovunque persone accampate. Eppure si intuiva che quel luogo era stato costruito con cura. C’era amore nelle pietre, nelle stanze, e la forza dei colori era incredibile. E poi tegami di riso ovunque, focolai di fortuna e le donne ruandesi. Portavano in giro la loro pancia con grande fierezza. Niente ti prepara a questo. I bambini feriti, le donne terrorizzate. Non c’è esperienza che può prepararti a questo.

La prima volta che mi sono resa conto con i miei occhi dell’orrore che aveva sconvolto il Ruanda è stato quando mi hanno portato il primo bambino da medicare. Era in braccio alla nonna. Aveva un segno sulla testa, un taglio netto a forma di y, la classica ferita da machete. Io lo osservavo e guardavo la donna che mi sorrideva. Lui invece piangeva disperato, tanto che non sapevo se avvicinarmi. Ero lì con i miei guanti, con un batuffolino di garza in mano e non sapevo cosa fare. Era agosto e probabilmente quella ferita era lì da due mesi, piena di pus. Non potevo bendarlo. Così chiesi alla nonna se potessero rimanere per la notte, per prendermi meglio cura di lui ma lei rispose che aveva altri 4 bimbi ai quali doveva dare da mangiare quella sera. E io le chiesi: “Ma sono tutti suoi?”. “Sono i miei nipoti. I miei figli sono tutti morti. Sono rimasti solo i bambini”. Sentii come un pugno dritto allo stomaco. Mi resi immediatamente conto. Lei era lì, davanti a me. Aveva perso tutti suoi figli eppure mi stava sorridendo e lottava con fierezza per la vita dei suoi nipoti.

Ho capito ancora di più…quando siamo andati a vedere. Il mio professore di italiano a scuola ci diceva: tanto maggiore è l’orrore, meno la gente riuscirà a concepirlo. Ecco fu esattamente così. Io vedevo e non riuscivo a razionalizzare quello che avevo di fronte. Non volevo capire che in quella chiesa di Ntarama stavamo camminando sopra ai morti. Vedevo i pezzi. In terra era tutto sparso: bicchieri, pentole, ossa, coperte, giochi, un pallone. Un pallone con la scritta “Italia 90”, bucherellato, sgonfio. E mentre calpestavo quelle ossa pensavo “devono aver giocato”. Tutto era rimasto intatto dopo il massacro. Per evitare il contagio di colera, infatti, era stata versata la calce sopra ai cadaveri. “Non è vero. Non è possibile. Non può essere vero”. Continuavo a ripetermi.

E la consapevolezza dell’orrore consumato in quella terra arrivava ogni giorno, nei momenti più inaspettati. Come quella sera che con i miei colleghi decidemmo di arrivare a piedi fino al parco naturale lì vicino. Era una scelta azzardata. Sentivamo ancora i colpi di arma da fuoco in lontananza, segnali di combattimenti intensi. Arrivammo fino il fiume. C’era il tramonto. Spettacolare. E mentre contemplavamo la natura incredibile di quei luoghi, in cerca di conforto, la mia collega disse: “Guarda ci sono dei morti in acqua”. In un’ansa del fiume galleggiavano dei corpi gonfi ma io non riuscivo a vederli, forse non potevo accettarlo. Per me erano tronchi. Ma lei insistette: “sono persone morte Francesca, non tronchi”. Fu in quel momento che improvvisamente iniziai a distinguere un braccio, una testa, una mano. E ‘stato veramente difficile.

Ogni mattina arrivavano sempre più feriti. Per tutto questo tempo erano rimasti nascosti in attesa che quei maledetti cento giorni finissero. Avevano trovato riparo nelle foreste, vicino ai laghi e ora venivano da ogni parte e si mettevano in fila per essere curati, accuditi. Per aiutarmi il Sindaco del paese, una persona eccezionale, mi aveva fatto affiancare da delle donne del posto, infermiere, che piano piano stavano cercando di recuperare briciole di normalità. C’era Maria Goretti che aveva perso il figlio. Adria, Clementina. Tutte donne bellissime, vestite di stracci, ma con una dignità straordinaria. Due di loro erano state violentate. Quanto mi piacerebbe rincontrarle. Vederle, abbracciarle, sapere che stanno bene.

Il muro degli scomparsi. Il Cicr faceva attività di ricongiungimento. Io nel mio ospedale avevo dipinto una parete di bianco e con dei chiodini ogni giorno attaccavo i messaggi che loro mi lasciavano, relativi a persone scomparse nella mia zona. Avevo assoldato un uomo, ferito gravemente, che tutte le mattine aveva il compito di leggere ad alta voce tutti i biglietti alle persone che aspettavano di essere medicati. “Antonio della famiglia di Luigi della collina di Destra”…L’elenco era molto lungo ma abbiamo ritrovato tantissime persone. Una cosa stupenda di cui sono molto fiera.

Non abbiamo imparato ad imparare. Un uomo del posto, che aveva lavorato come logista per tanto tempo con noi, mi chiese di partecipare alla cerimonia in onore della sua famiglia. “Domani ti vengo a prendere – mi disse – dobbiamo riaprire la fossa dove c’è la mia famiglia”. Il pensiero di affrontare quella giornata mi soffocava ma sentivo che, dopo tutto quello che avevamo condiviso, dovevo rimanergli vicino.  E’ stato un momento difficilissimo. “Questa è mia madre”. Disse ad un tratto. Quel volto mancato, ormai solo ossa, non lo dimenticherò mai. Aveva i capelli intatti e un fazzoletto che li teneva raccolti. Tante volte il ricordo di Agnes, questo il nome della donna, sarebbe riaffiorato alla mente. La cosa che mi rattrista di più, infatti, è che non abbiamo imparato ad imparare. Il genocidio armeno, quello durante la seconda guerra mondiale, la pulizia etnica In Jugoslavia, il Kosovo, i Bambini dell’Iraq. Noi dagli errori non impariamo mai. Viviamo queste tragedie come eventi normali, inevitabili. “In questi Paesi si ammazzo sempre”, ripetono le persone. E delle cose normali, si sa, non si parla. Per noi quei morti non hanno neanche significato il fatto che siamo uguali, neanche questo. Non abbiamo imparato ad imparare.

L’accoglienza è qualcosa che deve esser praticata, non si fa con le parole. L’accoglienza è piatti di riso condiviso, è la scuola, è seguire passo passo una persona, è diventare grandi. L’accoglienza è esserci. Siamo qui. C’è un problema? Lo risolviamo. Quando in Ruanda ho conosciuto per la prima volta mia figlia lei aveva 12 anni, 9 chili, una situazione clinica molto difficile. Da quel giorno non ci siamo più lasciate. Oggi lei ha 36 anni e sono infinitamente orgogliosa di lei. E ancora oggi noi parliamo di quello che è successo lì. In casa abbiamo il film “Hotel Ruanda” e ogni tanto lo riguardiamo. Perché lì c’è il coraggio della normalità, il coraggio delle mie infermiere che hanno lavorato al mio fianco, delle donne che ho conosciuto. Lì c’è tutto quello che dobbiamo imparare ad imparare.

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