Diario dal Kenya – 48 ore nel distretto di Kaikor, dove serve ogni tipo di aiuto
Foto di Tommaso Della Longa/ItRC
Lodwar – Disperata. Maestosa. Forte. Fuori dal mondo. Affascinante. Piena di storie e di bisogni. Ecco le prime parole che vengono in mente per descrivere l’Africa e più in particolare la regione del Turkana del Nord, nel distretto di Kaikor, dove la Croce Rossa Italiana opererà. Nelle ultime 72 ore, i volontari e gli operatori di CRI hanno iniziato a prendere confidenza con il terreno e le attività. Lunedì e martedì, sono stato insieme al team leader Ignazio Schintu e al video-operatore Stefano Scuderi, nei villaggi del Nord, mentre il resto del team affiancava la Croce Rossa Keniota nelle attività intorno a Lodwar. La totale mancanza di connessione, sia telefonica che internet, non mi ha permesso di scrivere prima della notte tra martedì e mercoledì.Ci sarebbero tante cose da raccontare, ma sovvertirò l’ordine cronologico dei fatti, per raccontare le prime impressioni degli ultimi due giorni. La situazione che il Turkana, regione nord-occidentale del Kenya, vive quotidianamente è difficile da spiegare: forse non ci sono immagini e parole per far capire fino in fondo quanto sia sconvolgente essere da queste parti. Qui manca tutto. Non ci sono strade, comunicazioni, acqua corrente, energia elettrica, cibo, assistenza sanitaria. Se Lodwar già sembra un villaggio sperduto, entrando nel distretto di Kaikor sembra di atterrare sulla Luna o su Marte. Cinque ore di viaggio in jeep in mezzo al nulla: chiamare “piste” le strade sarebbe troppo riduttivo, si guadano fiumi stagionali in secca e si passa su massicciate fatte di sabbia e sassi, chiedendosi come gli autisti conoscano la strada. La vegetazione quasi non esiste, essendo quasi completamente bruciata. Ogni tanto si incontrano donne che camminano mediamente 20-25 chilometri al giorno, trasportando acqua e cibo per la famiglia. Sì, perchè qui gli uomini pensano solamente agli accordi tra tribù, al gioco e ogni tanto ai pascoli: è la donna che deve fare tutto e lo fa con una forza e una dignità invidiabili. All’interno del paesaggio lunare, sono disseminati una serie di piccoli villaggi di queste comunità di pastori nomadi che montano e smontano le abitazioni nel tempo in cui finiscono acqua e pascoli. Poi, un’altra volta in marcia. Se ci si guarda intorno, non si può non notare quanto sia maestoso e affascinante il panorama: le nuvole che sembrano disegnate, le miriadi di stelle luminose che ti senti addosso, il silenzio che ti riempie, i raggi del sole che ti riscaldano e disegnano il cielo all’alba e al tramonto con colori vivi e forti. Poi, la vita di tutti i giorni a prescindere dall’emergenza umanitaria: pastorizia itinerante, costruzioni di villaggi, vita comunitaria. Quello che colpisce di più, quando vedi gli occhi dei bambini che ti cercano o le mani che ti chiedono aiuto, è la fierezza di tutta la comunità nel chiederti aiuto, la forza degli anziani e delle donne, il sorriso sempre pronto, la gioia nel cercare di comunicare con un forestiero. Distribuzioni di bevande (Unimix) e biscotti (Bp 5) iper-proteici, ambulatori mobili, vaccinazioni: la Croce Rossa Keniota sta facendo un gran lavoro da settimane e ora il team italiano riuscirà a duplicare le visite nei villaggi.
Foto di Tommaso Della Longa/ItRC
Acqua, cibo e assistenza sanitaria rimangono le priorità. Non è difficile vedere donne che con i loro bambini cercano di scavare i letti dei fiumi in secca, cercando qualcosa da bere: è la forza della disperazione. A Nakinomet, villaggio icona dell’emergenza, all’inizio dell’intervento, gli operatori della Consorella keniota si sono trovati davanti uno scenario drammatico: bambini e anziani che non si reggevano in piedi e morivano per mancanza di cibo. Oggi, all’arrivo della nostra jeep, una cinquantina di bambini hanno iniziato a urlare e cantare gioiosi: ora almeno possono sopravvivere. A Napak, nell’estremo nord, abbiamo visto le vaccinazioni e le visite mediche: file ordinate, dopo il censimento dei bisogni e dei nomi delle famiglie e poi la puntura o la somministrazione di una medicina. Le persone vengono suddivise in sottogruppi che vengono chiamati di volta in volta: non possono stare troppo in piedi per quanto sono deboli e rischierebbero di svenire. Tornare a Lodwar, sembra quasi incredibile: il cellulare che prende la linea, la missione che ci accoglie dove c’è un frigorifero, il pasto caldo che ci aspetta insieme al resto del team. I sorrisi che ci hanno regalato le comunità visitate in questi due giorni sono ormai scolpiti nel cuore: qui basta un piccolo gesto, come una tazza di Unimix, per cambiare la condizione di un nucleo familiare. Ecco, è questo che bisognerebbe riuscire a raccontare in Italia. E’ questo il motivo per cui dobbiamo chiedere spazi televisivi e sulla stampa cartacea. Bisogna far sapere che qui la situazione è grave e potrebbe peggiorare. Non si può neanche sperare nell’arrivo delle piogge: la terra è ormai talmente tanto secca che non drenerebbe più l’acqua e il rischio sarebbe quello di pericolosissimi allagamenti o addirittura alluvioni. “Asante sana”, “grazie tante”, provo a dire dopo lo scatto di una foto dai colori brillanti. Ma il swahili non basta, qui parlano kinya-Turkana. Poi un sorriso, una stretta di mano. E un’emozione che non se ne andrà mai più.