Croce Rossa Italiana in Iraq, il racconto di una giornata normale, dove la normalità non esiste

Taxim e la sua familgia
Taxim e la sua famiglia

Pubblichiamo una storia del team di Croce Rossa Italiana in Iraq, una testimonianza di vita quotidiana e del lavoro insieme con la popolazione locale. Giornata come tante, qui a Semel, cittadina a 14 km da Dohuk, il capoluogo di questa regione del Kurdistan iracheno. Come ogni giorno ci alziamo presto, perché il lavoro è molto: dobbiamo preparare almeno 6000 pasti per i profughi della zona. Sono due settimane abbondanti, ormai, che la Croce Rossa Italiana produce, confeziona e distribuisce pasti, insieme con la Mezzaluna irachena, alle migliaia di sfollati (qui li chiamano IDP- Internal Displaced Persons), poco più di 18.000.Le cucine da campo della CRI, dalle ore 6 di ogni mattina prendono vita e si animano di colori, odori, rumori… ma soprattutto delle persone che la rendono così unica.Subito si intravede il team della Croce Rossa Italiana, arrivato da diverse parti d’Italia, con l’unico obiettivo di dispiegare e rendere operativa una struttura imponente, capace di produrre fino a 10.000 pasti al giorno. Insieme a loro, ormai lavorando fianco a fianco in un unico team, notiamo altre divise, quelle dei ragazzi della Mezzaluna irachena. Ma non basta… in mezzo a tutte queste giacche rosse si nota un’altra tonalità, quella delle divise da lavoro dei local workers, i dipendenti locali. Come in ogni missione a lungo termine, infatti, si assumono in loco dipendenti che possano concretamente aiutare nelle attività. La strategia sta nel fatto che, soprattutto nella preparazione dei pasti, è importante rispettare gli usi ed i costumi delle popolazioni che si vanno ad aiutare, senza imporre qualcosa che non appartiene loro. In questa missione molti dei local workers sono essi stessi profughi: diverse religioni, diverse tradizioni e diverse storie, unite presso la struttura CRI per un unico scopo: aiutare chi ha bisogno.La mattinata calda scivola veloce, si sforna il cibo, si confeziona, si sistema nelle grandi scatole termiche per la consegna… oggi gli IDPs mangeranno riso con pollo. Le ore 13 arrivano in fretta, arrivano i furgoncini della Mezzaluna irachena, si carica il cibo con in sottofondo la musica araba che arriva dalle autoradio, e si parte. Il personale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa rientrerà quando sarà già buio.Durante il confezionamento dei pasti è normale chiacchierare, socializzare, raccontare un po’ di sé. Tra i cuochi assunti tra il personale locale ci sono tre fratelli: si sono presentati da noi fin dai primi giorni e hanno chiesto di poter lavorare per noi. Il maggiore si chiama Taxim e, insieme agli altri due, facevano i cuochi a Sinjar. I cuochi nei due ristoranti di cui erano proprietari. Non solo, possedevano anche un negozio di abbigliamento. Si trovano bene con noi, lavorano tantissimo e dimostrano grande professionalità e competenza. Si vede che ci sanno fare. Tra una chiacchera e l’altra, terminato il lavoro ci invitano a casa loro, perché hanno una persona importante da presentarci.Ovviamente accettiamo, ed ecco che imbocchiamo la strada che esce dalla città, per qualche chilometro. Le abitazioni si diradano, il paesaggio si fa più brullo. E arriviamo a una casa in muratura, con a fianco un’altra in fase di costruzione, all’interno della quale è impossibile non concentrare un attimo di attenzione, ma soprattutto un attimo di riflessione. Anche nella casa in costruzione, infatti, una famiglia sistemata alla buona, qualche mobile di recupero, un fornello per cucinare, un paio di materassi, con una donna che sistema i panni e i suoi bimbi attorno. Il fatto che non ci siano i muri sembra ormai non sconvolgerli, la loro vita va avanti anche così, sotto gli occhi di un mondo che convive con la disperazione di persone innocenti. Questo scenario è molto comune in queste zone, le case in costruzione costituiscono uno dei principali luoghi di rifugio, dopo i campi di accoglienza e le scuole, per migliaia di sfollati.Arrivati a destinazione, entriamo in una porta piccola, con una scala stretta che sale. Alla fine del pianerottolo, tantissime scarpe, di tutti i colori e di tutte le misure, che ci fanno intuire che incontreremo tante persone… e  che ce le dobbiamo togliere anche noi. La casa sembra abbandonata, scarna, senza mobili. A renderla viva ci pensano i bambini, che cominciano ad arrivare da ogni parte, incuriositi dalla nostra presenza. Taxim e i suoi fratelli ci invitano a entrare in una stanza, per fare quattro chiacchere. Insieme a lui, gli altri fratelli. La stanza è completamente priva di arredi, ci sono soltanto 3 materassi sottili a terra, che fungono da divani. Gli unici due cuscini che ci sono li porgono a noi, i loro ospiti, per stare più comodi.Le donne della famiglia restano in disparte, seguono la scena dalla stanza accanto. Solo una donna avanza verso di noi, si chiama Shaha. E’ la mamma di Taxim, ha 55 anni. E’ contenta, inizia a salutarci e a parlarci… trasmette così tanto stupore e felicità che poco importa se parla curdo, e noi il curdo non lo capiamo… E’ tutto molto chiaro quando si lasciano parlare gli occhi e il cuore. E’ una donna forte, si vede… una di quelle donne che trasmette sicurezza e che nella vita ha dato tanto. Tiene in braccio una bambina piccola e, mentre continua a coccolarla, si siede insieme a noi e inizia a raccontarci la sua storia. Poco più due mesi fa, il 3 di agosto, la loro vita è cambiata senza preavviso. Sono stati costretti a fuggire per salvarsi la vita, durante la presa della città di Sinjar, per non vedere qualcuno della loro famiglia fare la fine dei loro vicini di casa, uccisi a fucilate sotto i loro occhi. Sono scappati in taxi, lasciando tutto: le loro belle case, il ristorante, il negozio… tutto ciò che possiedi, quando rischi la vita, passa in secondo piano e perde di valore. Il viaggio non è stato facile, prima verso Mosul e poi di nuovo in fuga fino a Semel, attraversando la guerra. Fino alla fine, senza avere certezze di arrivare tutti sani e salvi. In tutto 28  persone, delle quali 12 bimbi, la più piccola, quella che stringe fra le braccia, è la sua nipotina di 5 mesi. Shaha è quasi venerata dalla sua famiglia e ha avuto la fortuna di averli tutti con sé: 6 figli maschi, 8 figlie femmine e 12 nipoti di tutte le età… una squadra di ragazzini che, mentre parliamo, non risparmiano grandi sorrisi quando incrociamo il loro sguardo. Siamo tutti seduti a terra, sui materassi, e rimaniamo incantati dagli occhi verdi di quei bambini e dei loro  genitori fissi su di noi: occhi limpidi, fieri e, nonostante tutto, felici.Lo facciamo notare a Saha, le diciamo che ci fa piacere vederli sereni, adesso che il peggio per loro sembra  passato. Lei ci risponde: “Sì, il peggio è passato, siamo felici perché ci siamo tutti e possiamo essere qui a raccontarlo. E se siamo qui, in questa casa che ci può dare ancora un po’ di dignità, è grazie a voi della Croce Rossa Italiana. Grazie a voi queste 28 persone possono pagare l’affitto di questa casa, possono comprare da mangiare, possono ricominciare. Non so come avremmo fatto senza di voi”. Un’altra cosa che la rende fiera, di noi e dei suoi 3 figli, è che contribuiscano, con il loro lavoro quotidiano, a dare un po’ di conforto alle famiglie in difficoltà, a coloro che non possono nemmeno permettersi un piatto di riso. E’ dura per chi fugge, soprattutto sul lungo periodo. Il governo aiuta i profughi al loro arrivo, con contributi in denaro, cibo, abbigliamento… ma sono veramente tanti, l’inverno è alle porte, ed è veramente difficile accontentare tutti. Anche per la famiglia di Shaha è andata così.Le chiediamo: adesso che sei qui, cosa ti fa paura? E lei risponde: “Adesso niente. Sono con la mia famiglia, siamo tutti vivi e ho trovato voi che ci avete aiutato a tornare a vivere. Non temo nulla e non ho bisogno di nient’altro. Per questo sorrido, e tutta la mia famiglia può sorridere insieme a me”.Durante la chiacchierata ci portano l’acqua… non per tutti, solo per noi, che siamo gli ospiti; da quello capiamo che le difficoltà sono molte, nulla va sprecato; e dopo l’acqua, il tè. Quello per tutti, è un grande momento di condivisione. E dopo il tè, arriva il momento dei saluti. Facciamo una fotografia… Domani faremo una sorpresa a Taxim, gliene stamperemo una copia e gliela regaleremo. Saha sarà contenta. Magari la appenderà alla parete vuota della sua nuova casa. Saha abbraccia forte una donna del team e la bacia come se fosse una figlia, saluta con riconoscenza tutti noi… non resiste ad abbracciare forte anche il team leader. E, per la loro cultura, questo vuol dire molto. In quegli abbracci, ha abbracciato idealmente tutti gli uomini e le donne della CRI. Con Taxim e i suoi fratelli ci si dà appuntamento domani, per un’altra giornata di produzione… con i bambini tanti sorrisi e qualche carezza.Ora di andare, ora di riflettere su quanto questa donna dagli occhi buoni ci abbia trasmesso: di quanto, troppo spesso, ci lamentiamo senza renderci conto delle cose davvero importanti. In quello che facciamo, nelle parole che diciamo. 

  

  

              

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