Panorama.it, un'inchiesta sugli afgani ospitati al CARA di Castelnuovo di Porto

Tra la via Flaminia e l’A1: nel Centro per rifugiati dove vivono gli afgani della “buca” di Roma

 (Panorama.it) Ecco dove sono finiti gli afgani della “buca” di Roma, o almeno gran parte di loro. Non dormono più alla Stazione Ostiense insieme ai topi, ma in una camera riscaldata del centro di accoglienza dei richiedenti asilo C.A.R.A (Centro accoglienza richiedenti asilo), nei pressi del Comune di Castelnuovo di Porto, a pochi chilometri dalla capitale. Sono proprio qui i 150 profughi afgani, tutti rifugiati politici, trasferiti al Centro il 12 novembre scorso con una corriera della Croce Rossa. Panorama.it li ha incontrati nella loro nuova casa. Il C.A.R.A. è un labirinto di corridoi illuminati da luci neon. Apparentemente sembrano spazi disabitati, ma tutto d’un tratto si sentono da lontano delle voci. E appaiono all’improvviso volti di uomini, sorrisi di bambini e sguardi femminili nascosti dietro un velo. Che anche senza parlare, dicono molto, raccontano storie. Le loro. C’è chi ha chiesto l’asilo politico, chi l’ha già ottenuto e sta cercando di integrarsi, chi invece ha scelto di fermarsi nel Centro solo pochi giorni, il tempo necessario per ri-organizzarsi e ri-partire per un altro Paese euopeo. Bashir ha 34 anni e viene da Gazni. “Nel mio paese avevo un piccolo negozio di libri” racconta. “La situazione però era talmente insostenibile, che ho deciso di scappare e di andare in una safe country, in un paese sicuro”. È in Italia da ormai 3 anni. Prima di fermarsi a Roma è passato da Milano e da Crotone. Oggi è in una terra sicura, ma la sua strada è ancora molto incerta. Ali di anni ne ha 18 anni: è passato dall’Iran e dalla Turchia, prima di arrivare a Roma. Dove vive in attesa che la sorella maggiore e la madre lo raggiungano. Sono fuggite anche loro e ora si trovano entrambe in Pakistan. Ali è un ragazzo estroverso e parla abbastanza bene italiano. “L’ho imparato a scuola” spiega. A Roma ha anche una fidanzata. “Napoletana”, dice con orgoglio, lasciandosi andare a un sorriso. Ha finito la terza media in Italia e ora lavora a Ciampino e guadagna circa 100 euro. Non si può permettere una casa, ma certo non vuole tornare a vivere nella “buca”. La stanza che Mohammad condivide con altri due ragazzi, è semplice, ma ordinata e pulita. In entrata ci sono tre paia di scarpe, tutte allineate, e sulla sinistra il bagno, dove è appeso alla parete uno specchio con una cornice di cartone. Ci sono tre letti, a ridosso di una grande vetrata. Appesi fuori dalla finestra, i vestiti appena lavati. Per terra c’è un telo colorato, forse per pregare o per fare due chiacchiere. Il Direttore del Centro, Massimo Ventimiglia, dice che la struttura (120 mila metri quadri su due piani), prima utilizzata dai Vigili del Fuoco, è stata data in gestione alla C.R.I. dopo gli sbarchi clandestini a Lampedusa. Può accogliere fino a 700 immigrati (anche se attualmente ce ne sono meno di 600), considerati a tutti gli effetti “ospiti”, e pertanto liberi di andarsene quando credono. “Dei profughi afgani” spiega Ventimiglia “il 90% ha scelto di restare”. Li hanno tutti riuniti in un settore apposito: al loro sostentamento ci pensa interamente la Croce Rossa. “Il nostro è un Centro di prima accoglienza, nonostante cerchino di farlo diventare anche di seconda”. Lungo le arterie principali del Centro si individuano vari settori: l’ufficio socio assistenziale (stanza 43), la ludoteca, il centro d’ascolto per i colloqui legali e psicologici, l’infermeria (con assistenza h 24), la mensa ed infine il settore dedicato allo smistamento e alla distribuzione dei generi di prima necessità. Il rischio che la merce distribuita agli immigrati venga rivenduta è alto. I limiti sono definiti secondo una convenzione con il Ministero degli Interni. È interessante curiosare tra gli scaffali e trovare una pila di pantaloni maschili di marca. “Merce di contrabbando, che è stata sequestrata”, spiega il responsabile del reparto. “Bruciarla costerebbe troppo e così viene ceduta ad enti o associazioni per scopi civil” conclude. Lo sforzo per non oltrepassare il labile confine tra sostegno e assistenzialismo, è certamente molto grande. Eugenio Venturo, il vicedirettore, è profondamente innamorato del suo lavoro. Per i profughi afgani della “buca” la sua sfida è riuscire ad integrarli e a renderli indipendenti: “Abbiamo chiuso la chiesa e la moschea che avevamo costruito all’interno del Centro, perché vogliamo che i nostri ospiti preghino fuori, insieme alla gente dei comuni limitrofi”, spiega Venturo. Così per lo sport, mandando gli immigrati a giocare nei campi sportivi fuori dal centro, per la scuola e anche il doposcuola. Non mancano gli incontri con i sindaci dei comuni vicini, i corsi di lingua italiana, i corsi di cucina – pensati soprattutto per le neo-mamme – e il cineforum. Tutte attività che mirano a insegnare il rispetto delle regole che vigono dentro e fuori le mura del centro, tra la via Flaminia e l’A1. (Fine seconda puntata)

  

     

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