Sulla motovedetta a lezione di primo soccorso. L'esperienza di un volontario istruttore della CRI alla Capitaneria di Lampedusa

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Foto di archivio di Marco Alpozzi

Lampedusa vista dall’alto dà l’impressione di essere un piccolo scoglio in mezzo al mare, sembra quasi impossibile poterci camminare sopra.  Eppure una volta che percorri le sue strade, ti accorgi che quest’isola rappresenta in piccolo l’assurdità del mondo in cui viviamo. Ci sono due facce a Lampedusa, quelle dei turisti piene di sorrisi e rilassatezza, delle musiche che si sentono nei pub per strada, delle folle nei bazar e poi ci sono i visi avvolti dalla disperazione, dall’incognita di quello che sarà la vita di domani. Ci sono visi che trasudano preoccupazione di chi per lavoro si trova a dover rischiare la propria vita perché altri possano vivere. Il mio compito presso la Capitaneria di Lampedusa inizia nel peggiore dei modi, nella diffidenza di chi si aspetta di sentire la solita lezione fatta da qualche saputello, che in condizioni di comfort elenca gesti salvavita senza avere neanche l’idea del lavoro che qui la Capitaneria svolge. Come dargli torto! Come si fa a parlare di soccorso a chi nel quotidiano affronta un’emergenza sanitaria a 180 miglia da un’isola con un numero di persone bisognose di aiuto nettamente superiore al numero dei soccorritori?Qui per fare una lezione era necessario rompere ogni schema e cercare una chiave che potesse attirare l’attenzione, perché ero sicuro che se fossimo arrivati ad avere l’attenzione il nostro lavoro sarebbe stato straordinario. Cercare di conoscere, di capire quale veramente sia il lavoro di questi ragazzi, quali siano gli strumenti che nel quotidiano utilizzano per dare un mano agli altri è stato il punto di partenza, il “contratto che Croce Rossa stipula con loro” attraverso una semplice presentazione. Iniziamo così aprendo le cassette in dotazione alle motovedette. Cento soccorsi l’anno, centinaia di persone salvate e ancore le cassette di primo soccorso erano perfettamente imballate nei loro cellophane. Gli occhi diffidenti a questo punto tendono a cambiare perché forse, noi della Croce Rossa, eravamo riusciti a catturare l’attenzione. A questo punto la lezione, partendo da una semplice cassetta di dotazione, non l’ho fatta io formatore, ma l’hanno fatta loro attraverso le domande che si susseguivano bramose dal desiderio di conoscere. Abbiamo utilizzato sul manichino il pallone autoespandibile e l’aspiratore manuale, che a loro sembrava una pompa per gonfiare chissà cosa. Adesso avevo la loro attenzione, ma ancora non li avevo conquistati. Durante il susseguirsi della lezione, esaurendo il programma, c’era la sensazione che mancasse qualcosa. Si arriva all’argomento scottante, le malattie che si posso trasmettere attraverso il contatto con i clandestini. Ecco che nuovamente si alza un muro, non fanno che parlare e riparlare delle condizioni nelle quali operano, posso capirli ma loro a questo non badano. Ci vuole altro. 

  

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Foto di archivio di Marco Alpozzi

Decido che la mia lezione non può arrivare qui tra le quattro mura di quest’aula. Devo andare dove lavorano questi ragazzi, lì dove è possibile capirli. La mia aula diventa la motovedetta e dentro la plancia facciamo lezione. Adesso quello che prevale è l’entusiasmo, perché nessuno prima si è “abbassato a tanto”, a fare lezioni lì dove loro lavorano. Ogni ragazzo ci tiene a mostrarmi le sue mansioni, a farmi vedere la posizione durante la navigazione e durante lo sbarco. Parlo seduto lì, dove soltanto un paio di giorni fa ci stava seduto qualcuno che affronta un viaggio faticoso verso un mondo che per cultura non potrà mai capirlo. Adesso ho la mia classe, si sorride, l’aria è più distesa. Mi raccontano di tutti i soccorsi affrontati, chiedo dell’assideramento, delle ustioni, delle ferite. Mangio una delle brioche offerte, le stesse che mangiano loro in 36 ore di navigazione, bevo la stessa acqua calda che bevono loro. Ogni ragazzo, ufficiale di comando, ha voglia di parlare forse perché, fra tutti i formatori arrivati lì, la Croce Rossa ha avuto il grande merito di saper ascoltare e non di decidere cosa sia il meglio per loro. Questi ragazzi compiono un lavoro atipico che non fa nessuna Capitaneria. Qui si organizzano i soccorsi con 50 nodi di vento e mare forza otto. Nella loro vita avranno salvato in un paio di interventi centinaia di persone eppure hanno la forza di condannarsi per la morte di chi non sono riusciti a salvare. Mi dicono che gli occhi di chi ha bisogno e si vede in difficoltà sono gli stessi a prescindere dal colore della pelle, dal carattere, dalla nazionalità. Questi sono padri di famiglia che rischiano la loro pelle e hanno soltanto voglia di non lasciare indietro nessuno. Mi chiedono delle considerazioni sul loro operato, non tenendo cura che sono loro a portare un messaggio di vita a me. Nella mia vita di soccorritore sono sempre conscio di fare il possibile per gli altri. Qui loro non fanno il possibile, vogliono l’impossibile!

  

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Foto di archivio di Marco Alpozzi

Terminata l’attività del primo giorno, potevo soltanto stare in silenzio. Come si riesce attraverso qualche riga e due parole a trasmettere le emozioni vissute in così poche ore di lavoro? Come si può comunicare la sensazione provata da un ragazzo, che ti stringe così forte la mano in segno di gratitudine per quanto svolto? Ritrovare l’indomani quelle persone ancora una volta in classe, quando potevano benissimo starsene a mare e rilassarsi nei pochi momenti liberi, è stato davvero particolare. Ricevere un segno di gratitudine da chi compie qualcosa di straordinario e ti dice che “di corsi ne abbiamo fatti tanti è vero, ma questo è stato il corso fra i corsi” non ha eguali. Sarebbe stato riduttivo esprimersi elencando gli atti relativi agli argomenti delle lezioni, perché la classe affidatami era molto preparata e la loro manualità circa i gesti salvavita era superiore alla sufficienza. Credo che lì il nostro compito come Croce Rossa fosse ben altro: fosse quello di ascoltare perché nessuno ha ascoltato questi equipaggi, solo così i nostri obiettivi potevano essere raggiunti. Ringrazio voi tutti perché chi non c’era non poteva capire “e io c’ero”.  Grazie a chi ha creduto in me. Molte volte perdiamo tempo in guerre stupide dentro la nostra Associazione, quando la Croce Rossa è in grado di arrivare dove gli altri non arrivano.

          

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