Quel pezzo d'Africa sbarcato a Bologna. Intervista al Direttore del Centro di Accoglienza per Migranti della Croce Rossa Italiana

Nella prima periferia bolognese è situato il Centro di Accoglienza per Migranti, gestito dalla Croce Rossa Italiana, la più grande struttura di accoglienza dell’Emilia Romagna. Per conoscere nel dettaglio le attività che già da un anno e mezzo vi vengono svolte,  abbiamo incontrato il Direttore del Centro, il Capitano del Corpo Militare C.R.I. Michele Camurati.       
                              
Direttore, negli ultimi tempi siamo stati testimoni di un aumento esponenziale delle attività di emergenza svolte dalla Croce Rossa Italiana, non solo all’estero ma anche sul territorio nazionale, non ultimo il terremoto in Emilia. Cosa sta succedendo?
Vede, succede che il vento è cambiato. Il Mondo stesso sta cambiando.  Se è vero che il nuovo Millennio è stato inaugurato dal lutto dell’11 Settembre, è altrettanto vero che da quel momento è maturata la consapevolezza che i problemi che ci affliggono oggi sono di portata globale e come tali richiedono una risposta globale. Mi spiego meglio. Grazie alle nuove possibilità tecnologiche e informatiche oggi conoscersi, condividere le idee, organizzarsi e contarsi “facendo rete” – in altre parole, scoprire che “l’Altro” è parte della soluzione del tuo problema – permette di abbattere le barriere, sconvolgendo completamente il paradigma fino a poco prima vigente, quello cioè fondato sulla separazione dei territori e sul dominio dei popoli. Oggi il sipario si è alzato. I tempi sono maturi per l’avvento di una nuova stagione caratterizzata dal cambiamento, una stagione in cui soprattutto i giovani hanno preso coscienza del loro potere e si stanno attivando in maniera pacifica per modificare gli assetti geopolitici delle proprie nazioni, assetti che in taluni casi hanno perdurato, immutati, per decenni. Credo che questo sia lo scenario con cui ci dobbiamo confrontare oggi: un mondo fatto di persone in costante movimento e compenetrazione, che – data la velocità del fenomeno – sempre più spesso necessitano della nostra assistenza.

I cittadini hanno paura che “verremo conquistati” dallo straniero. Voi come vivete questi grandi movimenti di persone?
Le migrazioni dei popoli sono una costante nella storia del genere umano, ma negli ultimi decenni costituiscono sempre di più il segnale di un profondo squilibrio di diritti, crescita e benessere, spesso collegato a conflitti armati, violazioni delle libertà fondamentali e persecuzioni nei paesi d’origine. Senza dubbio rappresentano una questione molto delicata, che deve essere affrontata senza pregiudizi ideologici né estremismi di alcuna sorta, ma alla luce della sua complessità. Richiede pertanto un atteggiamento costruttivo, di comprensione e apertura, che sappia affrontare in modo concreto le difficoltà e al contempo coglierne le potenzialità. Tuttavia, contestualizzando il fenomeno nella realtà socio economica attuale, e a fronte dei sacrifici richiesti di questi tempi agli italiani, posso capire (ma non comprendere), che lo straniero per qualcuno sia ancora concepito, erroneamente, come una minaccia.
In quanto operatori umanitari da questo punto di vista siamo privilegiati, poiché è il nostro stesso lavoro che ci  rende flessibili e adattabili a differenti contesti umani e culturali, aperti ai cambiamenti, ma soprattutto ci porta ad essere in prima linea nell’affrontare queste nuove sfide. Anche se nessuno di noi, fino a pochi mesi fa, avrebbe mai immaginato che un’emergenza di questo tipo ci avrebbe portati ad imparare in così breve tempo usi e costumi di diversi stati africani, arrivando a padroneggiarne persino la geografia.  Eppure l’abbiamo fatto, e nonostante le difficoltà incontrate durante questo percorso, ora ci sentiamo più completi, non solo dal punto di vista professionale, ma soprattutto da quello umano. Lavorando con queste persone è impossibile non scorgere nei loro occhi sguardi di sofferenza, nelle rughe sui volti segni di fatiche, nelle cicatrici memorie di violenze subite, segni concreti di diritti violati e privazioni.
Personalmente, sono convinto che l’opera di salvaguardia dei diritti di queste persone così vulnerabili rappresenta un modo per coltivare anche la nostra stessa dignità e difendere quei diritti umani che troppo spesso diamo per scontati. Siamo ad un nuovo inizio e senza dubbio da questo incontro non possiamo che crescere.
Si potrebbe pensare a noi come l’avanguardia della società civile, infatti sempre più ci viene richiesto di essere tolleranti, flessibili, adattabili ad un contesto in costante mutamento.  

Come è nato il Centro di Accoglienza?
Innanzitutto bisogna considerare che il Centro di Accoglienza “S. Felice” di Bologna è una struttura d’emergenza, realizzata da Croce Rossa Italiana per rispondere alle urgenti necessità assistenziali che si sono presentate in seguito agli scontri causati dalla cosiddetta “Primavera Araba”, nei territori del Nord Africa e del Maghreb. Questi scontri hanno determinato un massiccio afflusso di persone che fuggivano dai luoghi delle insurrezioni, cercando di mettersi in salvo dalle ostilità sperando al contempo di poter beneficiare di condizioni di vita migliori rispetto a quelle che detenevano nei paesi di provenienza. L’imponenza dei flussi in arrivo ha fatto sì che il Governo demandasse alla Protezione Civile la gestione dell’emergenza a livello nazionale. In Emilia Romagna l’Agenzia Regionale di Protezione Civile ha quindi affidato a Croce Rossa il compito di destinare una propria struttura per l’accoglienza dei profughi in arrivo, anche sulla base del rapporto fiduciario instauratosi in seguito alle passate emergenze. La struttura che ospita il Centro era naturalmente già esistente, e una porzione di essa continua tutt’ora ad ospitare il Centro di Mobilitazione delle componenti della Croce Rossa che sono ausiliarie delle Forze Armate italiane. Data la capienza della struttura, trova spazio all’interno di essa anche il magazzino regionale delle attrezzature campali di protezione civile: possiamo dire che in pratica si tratta di una grande base logistica di Croce Rossa che è in grado di farsi punto di riferimento per la risposta alle emergenze che si dovessero verificare sia sul territorio nazionale che su quello internazionale.
 
E’ rassicurante sapere che in Italia ci siano persone come voi che si allenano e si preparano ad affrontare ogni tipo di crisi, anche all’insaputa del comune cittadino. Ma come riuscite a conciliare le diverse anime di questa struttura così complessa?
Grazie alla professionalità ed allo spirito di dedizione che ci caratterizza come uomini e donne di Croce Rossa, grazie alla passione che ci pervade quando realizziamo di essere parte di un “qualcosa di più grande”, un meccanismo complesso ed integrato di mobilitazione dello spirito di umanità e di soccorso a chi si trova in difficoltà. Per questo siamo pronti a raccogliere la sfida mettendo da parte i personalismi e gli interessi settari. In questo senso, anche se a prima vista ciò potrebbe sembrare inverosimile, noi crediamo che tutte le attività che si svolgono qui, seppur diverse, siano tra loro interconnesse. E il comune denominatore è l’amore per la persona umana.

Quindi all’interno della struttura si possono incontrare diverse professionalità?
Assolutamente, e non solo. Da quando amministrazioni così profondamente diverse, sia per tipo di attività che per forma mentis, si sono trovate a dover coabitare nella stessa struttura, non è raro imbattersi in forme di socializzazione che trascendono i canoni classici che ci siamo assuefatti a considerare normali all’interno della società di oggi. Troviamo quindi giovani volontari appena ventenni, magari con il piercing al naso e lo spirito ribelle, cimentarsi per la prima volta in lavori che oggigiorno potrebbero apparire “degradanti” – come lavare i pavimenti o pulire i servizi igienici – aiutati da sottufficiali anziani dell’età dei loro nonni e dallo sguardo benevolo di chi la sa lunga. Discutendo insieme dei problemi del mondo e riscoprendo forme di dialogo e di confronto oramai poco professate, ci si conosce e ci si aiuta: chi sa usare il computer e chi sa aggiustare le cose, chi ha capacità tecniche con chi può aiutarlo burocraticamente. Si fanno fruttare le diverse competenze fino al raggiungimento del fine condiviso: trascendere se stessi per meglio concentrarsi sulla relazione d’aiuto.

Lei ha parlato di un modus operandi delle persone che sembra diverso da quello in auge al di fuori delle mura del Centro. Come vivono tutto questo gli ospiti da voi assistiti?
Ovviamente i nostri assistiti si collocano nel mezzo.  Per loro il “mondo esterno”, “l’Italia”, è tutto ciò che hanno potuto sperimentare in questi pochi mesi di permanenza in una struttura che è comunque confinata. Per fortuna Bologna è una città dal cuore grande, abituata da anni a ospitare persone provenienti dai quattro angoli del mondo, perciò il trattamento nei confronti dei migranti non è certo dei peggiori tra quelli fatti registrare nel resto d’Italia. Certo è che durante il loro girovagare in città non è da escludere che si possano imbattere in manifestazioni di velato razzismo nei loro confronti,  o ancor peggio che cadano nella rete della criminalità organizzata, e in quel vuoto del lavoro nero che fagocita sfruttando i più deboli. In tal senso abbiamo cercato in ogni modo grazie a una fitta rete locale di evitare che ciò possa accadere.  La vita al Centro serve anche a testimoniare loro che esisteranno sempre luoghi gestiti da persone dotate di apertura mentale che fanno orgogliosamente sfoggio di buone prassi comportamentali, perché hanno capito che è più lungimirante scegliere di investire nel futuro, piuttosto che agitarsi illudendosi di fermare il cambiamento che avanza.

Veniamo ai numeri: di quanti richiedenti asilo stiamo parlando?
Attualmente siamo a quota 124, ma nel periodo di massimo afflusso abbiamo ospitato 137 persone. Sono sempre stati tutti uomini di età compresa tra i diciotto e i quarant’anni, tranne cinque “over”, una vera e propria minoranza in mezzo ad una folla di giovani adulti. Il condividere lo stesso faticoso percorso di vita contribuisce però ad unirli nonostante la differenza d’età.

Provengono tutti dallo stesso paese o sono presenti gruppi di diverse nazionalità?
Come operatori umanitari, fin dalle prime fasi dell’emergenza ci siamo subito resi conto che la provenienza maggiore è da paesi dell’Africa Sub-Sahariana come la Nigeria e il Niger. È pur vero che gli arrivi da questi paesi sono stati preceduti da un vero e proprio esodo di massa di giovanissimi tunisini, ritengo in fuga da un sistema economico stagnante, più che a causa della paura di subire reali violenze fisiche. Quando gli scontri si sono spostati in Libia sono quindi arrivati in massa anche nigeriani e nigerini – che lavoravano nella repubblica araba come operai del settore petrolifero o in quello della cantieristica edile – mentre i flussi di cittadini provenienti dalla Tunisia tendevano a scemare. La cosa più sorprendente è la pressoché assoluta mancanza di cittadini libici. Ad oggi, non abbiamo notizie di sbarchi dove fosse registrata la loro presenza, ciò significa che sono tutti impegnati a combattere, sebbene su fronti contrapposti, per conquistare la libertà su quella terra dove sono risoluti a voler vivere.

Quali servizi fornite ai migranti che varcano i vostri cancelli?
All’arrivo al Centro i migranti vengono registrati con un apposito modulo che si avvale di un questionario anamnestico di valutazione volto ad acquisire dati personali per noi fondamentali come la provenienza, il luogo di arrivo in Italia, l’età anagrafica o le preferenze religiose. Oltre a ciò si cerca anche di venire a conoscenza delle reali condizioni di salute del migrante, per riuscire ad individuare tempestivamente i casi di possibile contagio o semplicemente per acquisire i medicinali più adatti a trattare le singole patologie riscontrate. Effettuata la registrazione, si provvede a rilasciare un tesserino di riconoscimento ad uso interno, che permette l’identificazione dell’ospite da parte del personale di Croce Rossa. Una volta espletate queste formalità inizia il processo di accoglienza vero e proprio, con il quale – oltre al vitto e all’alloggio – eroghiamo servizi di consulenza legale, supporto psicologico e religioso, assistenza sanitaria e disbrigo delle pratiche connesse con la richiesta d’asilo incluse le spese per il rilascio dei Permessi di Soggiorno e dei bolli previsti; nonché il supporto nell’eventuale ricorso in caso di diniego attraverso l’individuazione di un legale di riferimento operante in patrocinio gratuito. Considerando che la conoscenza della lingua italiana è l’elemento fondamentale per “costruire dinamiche relazionali nel contesto sociale”,  sin dai primi giorni di arrivo al Centro,  gli ospiti possono fruire di corsi mirati all’apprendimento della lingua italiana tenuti dal nostro personale qualificato all’ insegnamento dell’italiano agli stranieri. Per chi ne facesse richiesta sosteniamo inoltre, anche a livello economico, la frequenza di corsi sia pubblici sia privati presenti nel territorio bolognese. Abbiamo attivato inoltre diversi progetti di “Work Experience”, uno in particolare, in collaborazione con AUSER ed il Comune di Bologna, inedito ed interessante che vede coinvolte tutte le istituzioni in ambito dell’Amministrazione Giustizia del territorio bolognese.

In questo percorso siete da soli o avete trovato sostegno da parte di altri soggetti che, come voi, si battono in questo campo?
No, non siamo soli. La testimonianza di fiducia in ciò che facciamo ci viene data quotidianamente da chi come noi si batte per la soluzione del problema immigrazione di massa.  Parlo volutamente di “problema” perché con i numeri impressionanti che ci sono in gioco oggi, il sistema pubblico del welfare rischia veramente di non riuscire a raggiungere tutti in maniera efficace, determinando di fatto un’insostenibile carenza di servizi per un’alta percentuale di popolazione che è effettivamente presente sul territorio. L’Agenzia Regionale di Protezione Civile, i Comuni, le Province, le AUSL, le ASP, la Regione, gli UTG e le Questure, il mondo dell’associazionismo e del volontariato, sono interlocutori di fiducia con i quali ci interfacciamo quotidianamente e con cui condividiamo tutte le nostre eventuali perplessità circa le modalità di intervento. Vede, non è certamente facile parlare di diritti dei migranti in un paese che sta vivendo  una crisi sociale, economica e soprattutto etica così profonda, ma diventa necessario per evitare pericolosi avvitamenti sul piano della tenuta democratica, come le scorse tragiche vicende greche ci insegnano.

Quale ruolo specifico ha giocato Croce Rossa in questa emergenza?
Per capire meglio il ruolo che Croce Rossa  ha cercato di svolgere, dobbiamo ritornare al febbraio dell’anno scorso quando il governo dichiara lo stato di emergenza nazionale, con i primi trasferimenti dei profughi sbarcati a Lampedusa ai C.A.R.A e alle strutture collettive. Ad aprile, viene varato il “Piano per l’accoglienza dei migranti ” che affida alla Protezione Civile la gestione dell’emergenza. Su questa scelta pesano chiaramente due fattori fondamentali: da un lato il carattere emergenziale riconosciuto all’emorragia di arrivi via mare, dall’altro l’immediata disponibilità di risorse economiche per fronteggiare il problema. Ma questa opzione ha ampliato il già articolato sistema di accoglienza: oltre ai C.A.R.A. e alle altre strutture governative straordinarie ad essi equiparate, oltre alla rete Sprar, si è inserita la rete del Sistema Protezione Civile che funziona su base regionale. È questo l’ambito in cui abbiamo cercato di renderci interlocutori “forti” al fine di minimizzare il rischio che questi sistemi viaggiassero parallelamente, senza comunicare tra loro. Ci siamo fatti promotori di una vastissima serie di attività tese a sviluppare una “rete” omogenea e armonica nella risposta, fornendo un reale contributo alle Amministrazioni impegnate negli interventi di garanzia sociale e giuridica da adottare all’atto della chiusura della fase di accoglienza.
Un altro grande motivo di orgoglio da parte nostra è l’aver ricevuto il plauso e la fattiva collaborazione da parte della NUNAI, l’Unione Nazionale delle Associazioni Nigeriane in Italia. Il Presidente Nazionale ci ha più volte manifestato la sua gratitudine, omaggiandoci addirittura di una sua visita personale presso il nostro Centro di Accoglienza. Noi speriamo, con questa vera e propria proliferazione di reti di capitale sociale che si allargano sul territorio, di riuscire veramente a diminuire la vulnerabilità di questi migranti, fino a farli diventare a tutti gli effetti cittadini italiani ben integrati. Con l’opera sinergica di tutti gli attori, e con un pizzico di fortuna, ce la faremo.

Direttore, di lei dicono che è molto esigente e pretende dedizione assoluta dai suoi collaboratori, con i quali utilizzerebbe uno stile di leadership da molti reputato indecifrabile. Lei si definirebbe una persona autoritaria difficile da accontentare?
Vede, io credo di essere il risultato di una vita piena di sfide. Ho molto rispetto per le persone autentiche, quindi a mia volta mi reputo una persona sanguigna. Forse ha ragione, è molto facile farmi arrabbiare, e in questo senso chi si relaziona con me deve possedere anche buone doti di mediazione, ovvero deve convincermi della bontà di quanto afferma. Chi mi conosce bene lo sa: con me non è sufficiente avere la risposta pronta, deve essere una risposta convincente. Su questo non transigo. È vero, spesso ciò significa essere pronti a sostenere un confronto molto acceso, ma ciò non significa che io sia aggressivo. Ho la presunzione di voler risolvere le problematiche che mi si pongono dinanzi, e per questo pretendo che le risposte che diamo come team corrispondano a degli standard qualitativi adeguati al nostro ruolo. Le assicuro che dagli altri pretendo molto meno di quanto io non chieda a me stesso. Quel che è certo è che non amo chi si incensa e i disfattisti. Per andare d’accordo con me è necessario dimostrarmi che si è disposti a spendersi personalmente, lavorando a testa bassa per ottenere risultati tangibili, che rispecchino la volontà di perseguire un fine comune.

Il suo non è certo un ruolo dove ci si improvvisa. Lei come si è preparato per questo incarico?
La mia storia parte da lontano. Deve sapere che non ho sempre lavorato per Croce Rossa, alla quale sono approdato relativamente tardi. Provengo da una famiglia di militari, diventato ufficiale di complemento ho svolto diverse missioni all’estero in zone di crisi e di conflitto, trovandomi più volte ad operare in situazioni nelle quali la prontezza nel prendere decisioni, un elevato grado di doti di iniziativa e la capacità organizzativa sono fattori fondamentali per portare al termine una missione. Pur avendo imparato la disciplina e molte altre cose interessanti, ho comunque abbandonato presto l’Esercito e mi sono iscritto a Scienze politiche indirizzo sociologico, perché sognavo una vita diversa, lontana da casa e dalla routine di un incarico troppo irregimentato. Sono andato in Africa, come Security Manager per una grossa compagnia di Stato. Per diversi anni ho vissuto in paesi come l’Algeria e il Marocco, dove ho imparato a trattare con chi proviene da queste zone e da queste culture, che non sono poi così diverse dalle nostre, con loro serve soprattutto saper ascoltare, essere la prima persona a venire a conoscenza dei problemi, ed il più creativo nell’ideare le risposte. Dopo il Nord Africa sono ritornato in Italia. Erano gli anni in cui si cominciava a parlare di risposta alle emergenze, di Disaster Management, di cooperazione allo sviluppo ed è cominciata così la mia avventura di operatore umanitario. Sono stato testimone delle principali catastrofi umanitarie dell’Africa sub sahariana Ruanda, Namibia, Angola, Chad ecc., lavorando nei campi profughi in condizioni di estrema drammaticità, accanto ai rifugiati, in campi in cui a volte erano ospitate più di centomila persone. Ho vissuto in prima persona il dramma e le contraddizioni dell’Ex-Yugoslavia e della crisi balcanica. Sono partito con la Protezione Civile come consulente per l’Emergenza Tsunami, e nella giungla dello Sri Lanka ho ricordato a me stesso cosa significa vivere in condizioni di vita difficili, sperimentandole per giorni sulla mia pelle. Da lì in poi è stato un susseguirsi di emergenze, collaborazioni, riconoscimenti e di alternanza tra ruoli tecnici e manageriali.
Oggi posso ancora dire di fare un lavoro stimolante, nel quale ogni nuovo giorno non è mai uguale al precedente. Sapermi ancora in campo a sfidare i problemi del mondo col pensiero rivolto alle generazioni future mi dà quella carica giusta che, tornato a casa, mi permette di guardare negli occhi mio figlio e sentirmi un padre degno di lui.

(Ringraziamo Giovanni Vezzani per la collaborazione editoriale)

 
 

 
 
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